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La realtà aumentata ci vuole diversi. I rischi della tecnologia (troppo) immersiva

Ci sono rivoluzioni annunciate che poi si rivelano tafferugli di contorno, sortite che si concludono con un rapido dietrofront in attesa di tempi più maturi, forse destinati a non concretizzarsi mai. Nel mondo del tech, abbiamo imparato quanto the next big thing sia più difficile da prevedere di quanto vorremmo. Tre o quattro anni fa non si parlava d’altro che di smartphone pieghevoli, ma nelle tasche e nelle mani delle persone continuano a esserci quelli rigidi, dritti, inflessibili. Nel 2015 Time dedicò una copertina destinata a diventare meme, con il fondatore di Oculus, Palmer Luckey, ritratto con il suo visore per la realtà virtuale in una posa non propriamente aggraziata, su un improbabile sfondo di isola tropicale, e sei anni dopo – pochi mesi fa – il New York Times si chiedeva “perché la realtà virtuale è ancora così di nicchia?”, facendo notare come la pandemia, generatrice perfetta di bisogno d’evasione, non fosse stata un particolare stimolo per scorribande in 3D (volevamo, invece, tornare a fare un concretissimo jogging).

Non è nemmeno detto che i flop rimangano tali a lungo: a volte semplicemente non è il momento adatto, anni prima dell’iPhone Apple produsse il Newton che andrò incontro a un doloroso fallimento, degli occhiali à la Google Glass si è appena riparlato con i Ray-Ban Stories di Facebook (pardon, Meta), e ancora in tanti oggi giurano che tra un paio d’anni i nostri telefonini si piegheranno obbedienti come origami. E alzi la mano chi tra i non giovanissimi, guardando la presentazione del metaverso di Zuckerberg, non ha pensato alla fuggevole mania per Second Life che imperversò per qualche mese anche da noi (nel 2007 l’allora ministro Antonio Di Pietro proprio lì cominciò a tenere comizi virtuali). Ma altre volte non ci rendiamo neppure conto che una tecnologia annunciata anni prima e dalle applicazioni apparentemente limitate entra a far parte del nostro quotidiano in maniera quasi allarmante, com’è capitato con la realtà aumentata.

Realtà aumentata: dai tuffi della balene ai filtri di Snapchat

Di realtà aumentata si comincia a parlare qualche anno fa, ma è nel 2016 che comincia a dominare gli articoli di tecnologia, complice il video virale della startup Magic Leap in cui una balena a grandezza naturale sembrava tuffarsi nel pavimento di una palestra scolastica con un coro di “oooh” degli stupefatti studenti presenti. In realtà quel video venne realizzato con i cari, vecchi effetti speciali (tra cui le esclamazioni di sorpresa di fronte a del normalissimo, immobile linoleum, appunto), e Magic Leap – che tutti si aspettavano dovesse conquistare il mercato e diventare il nuovo unicorno – negli anni successivi non se l’è passata tanto bene, fino a rischiare di fallire. Ma la realtà aumentata ha seguito un’altra strada, proponendosi in continue applicazioni (basti pensare al successo di Pokemon! Go) e diventando oggi parte integrante della nostra vita digitale, a partire dai filtri di Instagram e Snapchat.

Già, i filtri: ogni volta in cui carichiamo sui nostri profili una Stories – come ormai è invalso dire con sprezzo della grammatica e delle concordanze – e ci decoriamo variamente il volto con orecchie e musi da cane o folte barbe per vedere l’effetto che fa, stiamo a tutti gli effetti utilizzando la realtà aumentata. Ma lo facciamo anche tutte le volte in cui scegliamo il filtro che ci fa sparire l’acne dalle guance, ci trucca, trasforma i nostri occhi in sguardi maliardi, ci rende, in due parole, più belli.

Come ci vediamo noi e come si vedono gli altri

Il problema è che questa moltiplicazione della realtà aumentata, con la complicità di Internet mobile a bassissimo prezzo (su SOSTariffe.itsembra avere un impatto serio sull’immagine che abbiamo di noi, soprattutto per i giovanissimi. Tra Instagram, Snapchat e ovviamente TikTok, fa una certa impressione vedere preadolescenti che scimmiottano showgirl e influencer utilizzando i loro stessi filtri, ed è un mercato dalle potenzialità immense (non per niente, secondo Bloomberg, quasi un quinto degli impiegati di Facebook/Meta sta lavorando oggi per progetti sulla realtà aumentata o la realtà virtuale). Secondo i dati di Snapchat, 200 milioni di utenti ogni giorno usano filtri per trasformare il loro aspetto, oltre che – come aggiungono prudentemente i portavoce dell’azienda – “giocare e imparare di più sul mondo che li circonda”. In totale, secondo la MIT Technology Review, nel solo primo anno in cui sono stati resi disponibili i tool digitali per la realtà aumentata sui prodotti di Facebook (tra i quali appunto Instagram) sono stati rilasciati più di 1,2 milioni di effetti, e nel settembre del 2020 più di 150 profili di creatori di filtri avevano superato il miliardo di visite ciascuno.

Non è certo una novità la distanza, vera o supposta, tra immagine proposta di sé e realtà (Twitter ad esempio è impazzita, qualche giorno fa, perché un incauto utente si era detto “deluso” dal corpo di nientemeno che Margot Robbie in una foto normale e non immortalato in un photoshoot), ma è indubbio che la realtà aumentata vada ben oltre al paziente lavoro in post-produzione su Photoshop per eliminare la smagliatura o stringere un po’ la vita, e soprattutto può operare in diretta, alla portata di tutti e senza alcuna competenza tecnica. In un certo senso, è la faccia (appunto) in apparenza meno preoccupante del fenomeno dei deepfake, dove la mimesi digitale arriva al punto di sostituirsi a Victor Frankenstein montando teste di qualcuno sul corpo di qualcun altro, od ottenendo un perfetto lip synch per parole che non sono mai state pronunciate.

I rischi della tecnologia (troppo) immersiva

Per questo un recente articolo della Harvard Business Review, a firma di Ana Javornik, Ben Marder, Marta Pizzetti e Luk Warlop ha messo a punto una lista di strategie per la realtà aumentata con l’obiettivo di «massimizzare i benefici di queste nuove tecnologie minimizzando gli svantaggi»: non promuovere standard di bellezza non realistici, implementare la scelta autonoma del livello di “modifica” di sé stessi, incoraggiare l’affermazione positiva di sé, riconoscere i potenziali rischi per l’equilibrio psichico e collaborare a creare un codice etico. La tecnologia immersiva, insomma, è tanto potente quanto rischiosa, e l’ironia tra lo scarto tra i continui inviti (anche pubblicitari) a “essere sé stessi” e la pervasività della tecnologia che ci trasforma digitalmente – fino agli sfondi di Teams o Zoom che simulano località esotiche come teatro delle nostre chiamate – è più drammatica tanto più appare innocua.

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