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Le politiche per l’audiovisivo, la situazione italiana tra mercato e pregiudizi

Un paio di settimane fa le dichiarazioni del ministro Sangiuliano che si detto disposto, seguendo una richiesta del ministro dell’economia, a tagliare una parte dei fondi per il sostegno, ha suscitato molto dibattito e reazioni un po’ scomposte. Contemporaneamente è stata presentata una tabella con una decina di film con finanziamenti anche consistenti e risultati imbarazzanti che gli addetti ai lavori e i tecnici del ministero conoscevano già, ma preferivano rimuovere.

La dichiarazione del Ministro in sé non è buona né cattiva. Non necessariamente le risorse spese per finanziare la produzione cinematografica sono spese bene, ma il problema è come assicurarsi che le risorse pubbliche non siano usate per finanziare film dai risultati risibili, quindi come verranno modificati le regole e gli strumenti per adattarli agli obiettivi che il ministero vuole perseguire. Già gli obiettivi sono allo stesso tempo il punto di partenza e il punto dolente. Gli obiettivi sono una decisione di natura politica e dovrebbero precedere qualsiasi politica pubblica. Obiettivi enunciati chiaramente consentono di discutere apertamente prima e di misurare dopo  se i risultati ottenuti corrispondono agli obiettivi prefissi e alle risorse impiegate. Purtroppo in tutta la documentazione che ha accompagnata in questi anni le misure sull’audiovisivo è difficilissimo rintracciare degli obiettivi dichiarati apertamente.

In questi ultimi anni il sostegno alla produzione è aumentato molto arrivando a 223 milioni di euro l’anno scorso su un totale di 522 di spese complessive per la produzione cinematografica, un salto rispetto ai 50-60 milioni annui dei primi anni 2000. L’effetto principale è stato un aumento dei film prodotti che però non è necessariamente una buona notizia, soprattutto se si vuole sviluppare la presenza sui mercati internazionali. 

Tanti film piccoli funzionano meno di pochi grandi. Spesso nel mettere a punto e politiche e nel dibattito settoriale si è guardato molto alla Francia come interprete di un orientamento europeo. Ma la Francia costituisce un caso abbastanza unico in Europa sia per l’entità delle risorse impiegate, su cui negli ultimi anni si sono sollevate all’interno numerose voci dubbiose, sia per l’orientamento fortemente dirigistico e protezionistico, che sconta forse non pochi elementi di cattura del regolatore da parte dell’industria.

Gli altri paesi adottano un approccio molto più leggero nell’applicare le direttive europee e mantengono una certa attenzione al fatto che l’adozione di misure di supporto non distorca troppo gli incentivi che muovono gli operatori. In molti paesi nel tempo è emerso un dibattito sulla crescita di operatori specializzati nel fare film sussidiati, più abili nel muoversi tra le commissioni di valutazione che nel fare film che interessano il pubblico.

In questi 15 anni i miglioramenti del nostro cinema sono stati relativi: la quota di mercato dei cinema nazionale sul mercato interno delle sale rimane del 20-21% con un certo calo rispetto all’andamento del decennio precedente la pandemia. Si tratta comunque di una quota bassa in linea con gli altri paesi europei dove i film americani conquistano generalmente tra il 60 e l’80% dei biglietti venduti, al secondo posto si trovano i film nazionali e solo dopo i film degli altri paesi europei. L’idea di un mercato comune dell’audiovisivo rimane una chimera.

Si fa spesso riferimento al fatto che un audiovisivo nazionale forte favorisce non solo la diffusione della cultura italiana ma anche l’export e sostiene il made in Italy. Si tratta naturalmente di un obiettivo condivisibile, ma per questo i nostri film devono essere presenti sui mercati internazionali ed essere capaci di attrarre pubblico. Purtroppo la nostra propensione all’export, cioè la relazione tra biglietti venduti all’estero e quelli venduti sul mercato interno è tra le più basse dei grandi paesi europei. Nel 2016, rielaborando i dati Lumiere,  la nostra propensione all’export era del 2.8%  contro il 5,3% della Spagna, il 19,7% della Francia, il 7,9% della Germania, il 34% della Gran Bretagna e anche il 4,6% del Belgio.

Anche nelle piattaforme la situazione non è migliore. Da oltre due Netflix rende pubblici alcuni dati sulle top ten. In questo periodo tra i primi 10 titoli di film non in inglese (basati sui primi 91 giorni dall’uscita) c’è un solo titolo italiano, uno francese, uno norvegese e uno svedese, ma 2 tedeschi e 4 spagnoli. Nelle prime 10 serie per ore viste la situazione è simile con 4 titoli spagnoli, 2 coreane, 2 francesi, una tedesca, una messicana e nessuna italiana.

Il secondo punto oltre alla discussione aperta sugli obiettivi riguarda il monitoraggio dei risultati ottenuti, al fine di operare nel tempo un fine tuning delle politiche adottate. Non sempre questo viene fatto. Una misura adottata da diversi governi è lo sconto al prezzo dei biglietti per un periodo limitati di tempo in giorni particolari, talvolta solo per le pellicole italiane, finanziata, anche parzialmente, con risorse pubbliche.  Ma a mia conoscenza non è mai stata fatta una valutazione di impatto di qualche validità scientifica, se si escludono semplici statistiche che comparano le medie prima e dopo e che servono a poco. Eppure si tratta di una valutazione facile da fare e utile per ottenere il massimo dei risultati.

La produzione audiovisiva presenta elevati costi fissi e lavora su prodotti sempre nuovi di cui non si conosce la domanda a priori e quindi si caratterizza come un’attività molto rischiosa e dove occorre bilanciare nei singoli progetti l’assunzione dei rischi, i contributi e gli impegni dei diversi soggetti coinvolti. Per questa ragione le politiche pubbliche dovrebbero essere leggere e attente a provocare pochi effetti distorsivi. Infatti alla fine per avere successo non ci sono tante possibilità diverse dal fare buoni film capaci di attrarre pubblico internazionale. Non c’è protezione o sussidio che possa sostituire questo orientamento e la capacità di assumere i giusti rischi.

Guardando al panorama europeo la strada verso la globalizzazione sembra impervia visto che in tutto il continente la quota dei film nazionali è in contrazione e la propensione all’export contenuta. Ma c’è un’esperienza poco conosciuta di ripresa del cinema nazionale che andrebbe studiata meglio. Si tratta della Corea che dopo aver avuto fino agli anni novanta un approccio protezionistico tradizionale ha cambiato orientamento allentando molti vincoli agli scambi internazionali,  adottando una politica di sussidi contenuta e concentrata sulle spese infrastrutturali e ha facilitato l’ingresso di conglomerate nazionali nel settore che hanno portato competenze manageriali.

Nel giro di una decina d’anni la quota del cinema nazionale nelle sale ha superato quella dei prodotti statunitensi, l’export è cresciuto sia in valore assoluto che in propensione e il livello di qualità dei film, misurato con le valutazioni di Rotten Tomatos e Imdb, risulta mediamente superiore rispetto a quello di diversi paesi europei consolidati. E’ una storia di successo resa possibile e facilitata da politiche attente e leggere che peraltro il paese ha replicato in modo consapevole anche nel settore musicale con la crescita dei K-pop.

Le possibilità di rilancio dunque ci sono. Si tratta di non farsi ingabbiare da pregiudizi consolidati e di considerare attentamente le specificità economiche di un settore complesso, ma capace di molte ricadute positive.

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