Ecco l’indice di “fragilità comunale”. In Sicilia è del 61,9%, in Calabria del 53,2%
Caivano, Casal di Principe, Ercolano, in provincia di Napoli, Platì, in Aspromonte, ma anche Cardeto, nel reggino, Montaguto, in Irpinia, Celle di Bulgheria, nel Cilento, Galliavola, in Lomellina, alcuni sono centri noti, specie alle cronache criminali, altri sono paesi sconosciuti ai più, ma tutti sono nel lungo elenco dei comuni più fragili d’Italia. Sono quelli che l’Istat, attraverso dodici indicatori aggiornati al 2021, ha individuato come maggiormente a rischio a livello economico, sociale, demografico, ambientale. Nelle cronache giornalistiche sono quelle che vengono definite “aree depresse”.
Dove sono le aree depresse in Italia
Il nostro istituto di statistica, infatti, ha diviso piccoli paesi, città, metropoli italiane in 10 decili, ovvero gruppi che rappresentano ognuno un decimo dei comuni, da quelli con minori a quelli con maggiori fragilità, e i centri elencati all’inizio, per esempio, sono tra quelli che si trovano nella categoria peggiore, la 10. Nel Sud in centri di questo tipo vive il 10,1% della popolazione, nelle Isole l’11,6%, ma se allarghiamo il calcolo alle categorie 8 e 9, quelle definite di “alta” e “molto alta” fragilità, si arriva rispettivamente al 44,6% e al 52,3%, come si osserva nella nostra infografica. Al Nord Ovest invece nella stessa situazione è solo l’1,4% degli abitanti, mentre al Nord Est quasi nessuno, solo lo 0,3%.
A livello regionale il record delle aree depresse appartiene alla Campania, dove più di due cittadini su tre, ovvero il 67,7% della popolazione, abita nei comuni più fragili. In Calabria ci vive il 53,2% dei cittadini, in Sicilia ancora di più, il 61,9%.
Perché sono i comuni più fragili d’Italia
Ma quali sono le ragioni per cui questi comuni sono definiti fragili, in quali indicatori risultano in fondo alla classifica? C’è per esempio il tasso di occupazione tra 20 e 64 anni, la percentuale di 25-54enni con bassi livelli di istruzione, la presenza di aziende dell’industria e dei servizi in rapporto agli abitanti e la quota di lavoratori impiegati in mansioni a bassa produttività. Conta anche la demografia, con l’indice di dipendenza, ovvero il rapporto tra under 20 e over 65 e coloro che sono in età lavorativa (i 20-64enni, appunto), oppure con il tasso di incremento (e decremento) della popolazione.
Ha un peso, poi, pure l’indice di accessibilità ai servizi essenziali, con il tempo percorso per arrivare a una scuola o un ospedale, così come la partecipazione alla raccolta differenziata e il tasso di auto inquinanti, di categoria euro 0-3. Non mancano indicatori ambientali, come l’incidenza di consumo di suolo e quella di aree a rischio di frane.
Certo, qualche criterio, in realtà, sfavorisce il Nord, come il consumo di suolo, che è un problema maggiore in Pianura Padana, oppure il Centro, come il rischio di frane. Tuttavia la grande maggioranza vedono il Mezzogiorno avere punteggi decisamente inferiori, specie quelli economici, in particolare quelli che riguardano l’occupazione. Nelle regioni meridionali per esempio, il 64% della popolazione vive in comuni che rientrano nei tre decili peggiori per quanto riguarda l’incidenza di lavoratori in settori a bassa produttività.
Più fragili i comuni piccoli e lontani dalle metropoli
Non è solo il solito divario Nord-Sud a definire la fragilità dei comuni italiani, ci sono molte differenze anche in base alla dimensione dei paesi e delle città, per esempio. Tra coloro che vivono in centri con meno di mille abitanti sono il 37,3% a trovarsi in località di categoria 8, 9 e 10 (alta, molto alta e massima fragilità), mentre tra quanti sono residenti in quelli tra 100 e 250mila abitanti sono solo il 2,6%. Sono diversi anche al Nord i micro-comuni collocati sulle Alpi occidentali, in Piemonte e Valle d’Aosta, o sull’Appennino ligure, che presentano situazioni di disagio, una popolazione molto anziana con un limitato accesso ai servizi essenziali, per esempio.
Sono del resto comuni che rientrano anche tra le cosiddette aree interne, quelle composte da centri, da Nord a Sud, definiti periferici o ultra-periferici, perché distanti più di 40,9 km (nel caso dei periferici) o più di 66,9 (quelli ultra-periferici) da un polo urbano, cioè da una realtà con scuole superiori, stazioni ferroviarie, ospedali di una certa importanza. In queste aree interne più di un terzo della popolazione vive in comuni molto fragili, che rientrano nei decili 8,9 e 10. Nei poli urbani, invece, si ritrova nella stessa situazione solo l’8,7% degli abitanti.
Roma meno fragile di Milano
Tuttavia è innegabile che la grande maggioranza dei centri rurali fragili sia nel Mezzogiorno, dove del resto anche grosse città di diverse centinaia di migliaia di abitanti si trovano in un una situazione di rischiosità sociale ed economica, come Napoli e Palermo, che hanno un punteggio 8, quello definito di alta fragilità. Tra le altre aree urbane, invece, Roma si trova al decile 1, il migliore, meglio ancora di Milano, che è al decile 2 (fragilità molto bassa), mentre Torino è in una situazione peggiore, al 5 (fragilità lieve), come Bari. All’1, come Roma, sono invece Bologna, Venezia, Verona, Parma, Ancona. Un po’ più indietro Firenze, al decile 3.
I miglioramenti nel Mezzogiorno
Nei numeri dell’Istat c’è però una nota di ottimismo, tra la prima analisi effettuata, del 2018, e la più recente appena pubblicata, con i dati del 2021, c’è stato un miglioramento. Nel 2018 al Sud viveva in un comune molto fragile (dal decile 8 al 10) il 51,4% della popolazione, tre anni dopo sono diventati il 44,6%, mentre nelle Isole questa quota è scesa dal 63,6% al 52,3%. Le riduzioni più importanti sono quelle che si sono viste in Sicilia, in cui è passata dal 76,1% al 61,9% e in Calabria, dal 63,7% al 53,2%, mentre in Campania i residenti nei comuni più fragili sono scesi meno, dal 72,1% al 67,7%. Certamente a contare è stato l’aumento dell’occupazione e dell’istruzione nel Mezzogiorno.
Al contrario, sono cresciuti in Valle d’Aosta, dove tra 2008 e 2021 sono passati dal 20,8% al 24,7%, un segno che la più piccola regione d’Italia è diventata ancora più periferica nel tempo. Il grande divario tra Nord e Sud in Italia, insomma, rimane, ma in base a questi dati sembra essersi attenuato.
I dati sono del 2021
Fonte: Istat
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