SCARICA LO STUDIO “MICROPLASTIC TOXICITY AND TROPHIC TRANSFER IN FRESHWATER ORGANISMS”
Lo studio dell’Enea sulle microplastiche
Nei mari e gli oceani di tutto il mondo dovrebbero galleggiare più o meno 170 trilioni di frammenti di plastica di varia grandezza, dai quelli più grandi alle microplastiche e le nanoplastiche. L’inquinamento di questo materiale è accertato ormai, ma ancora si deve capire fino a che punto può tradursi in una minaccia diretta alla nostra salute e a quella delle altre creature che vivono in acqua e in prossimità delle coste.
Un nuovo studio condotto dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) e dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e pubblicato sulla rivista scientifica internazionale “Water”, ha individuato in laboratorio alcuni passaggi fondamentali nel ciclo alimentare marino tra microplastiche, piante e animali.
I risultati hanno dimostrato che le piante, durante l’esposizione, oltre a una lieve riduzione del contenuto di clorofilla, hanno accumulato un elevato quantitativo di microplastiche sulle radici di cui i crostacei si cibano, ingerendone in media circa 8 particelle per esemplare.
La contaminazione della catena alimentare
“Questo studio mostra chiaramente, all’interno di un sistema controllato di laboratorio, i meccanismi attraverso i quali le microplastiche entrano e si trasferiscono all’interno della catena alimentare. Le piantine, infatti, hanno avuto il ruolo di ‘raccogliere’ e ‘trasferire’ queste particelle ai crostacei, fonte di cibo per i pesci che a loro volta accumulano microplastiche anche nei muscoli, che sono poi le parti che noi mangiamo”, ha affermato in un comunicato Valentina Iannilli, ricercatrice ENEA del Laboratorio Biodiversità e servizi ecosistemici.
“Questo significa che le microplastiche non sono, come spesso è riportato, materiale inerte che non interagisce con le funzioni degli organismi, ma che, invece, si ‘muovono’ lungo la catena alimentare con effetti diretti anche sull’integrità del patrimonio genetico e di conseguenza potenziali a lungo termine su popolazioni, comunità e interi ecosistemi”, ha aggiunto Iannilli.
“Un risultato – ha precisato la ricercatrice – che deve far riflettere sulla pericolosità del rilascio nell’ambiente di queste particelle microscopiche derivate dalle attività antropiche, anche in considerazione della loro diffusione in tutte le matrici ambientali quali acqua, suolo, aria, ghiacci dell’Artico fino ai sistemi agricoli”.
DNA “significativamente” danneggiato dalle microplastiche
Le microplastiche, inoltre, una volta ingerite dai crostacei, vengano sminuzzate e “restituite” all’ambiente sotto forma di escrementi, che possono rientrare nella catena alimentare, cosiddetta “del detrito”, in maniera potenzialmente più pericolosa di quella di partenza.
Dopo solo 24 ore, è stato possibile osservare come gli individui “trattati” con le microplastiche presentino un livello di frammentazione del DNA significativamente superiore rispetto a quelli non trattati, dimostrando come queste particelle siano effettivamente in grado di indurre un danno al DNA nelle cellule degli organismi studiati.
Ulteriore problema è il passaggio dai crostacei all’uomo. Sappiamo purtroppo che frammenti molto piccoli di plastica sono entrati nel nostro organismo e che le nanoplastiche sono dannose per la nostra salute, ma ancora c’è da capire fino a che punto.
Un’azione mondiale contro l’inquinamento da plastica
Un anno fa, a marzo del 2022, l’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente (United Nations Environment Programme) ha adottato all’unanimità la Risoluzione 5/14, con l’obiettivo di “porre fine all’inquinamento da plastica: verso uno strumento internazionale giuridicamente vincolante”.
Una risoluzione che è già considerata una vera e propria pietra miliare per la transizione industriale e un grande passo verso un oceano senza più plastica.
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