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TIM e la rete. Il CdA decide a metà. TIM non risolve nessuno dei suoi problemi. Il sistema nazionale tlc rimane congelato

Giorni di pathos consumati sino a ieri in attesa dell’annuncio, che sembrava ormai inevitabile, della vendita della rete TIM a KKR. E già, perché negli ultimi giorni aveva preso corpo la convinzione che CDP sarebbe stata costretta a rinunciare e che quindi non vi sarebbe stata altra strada. Ma così è stato solo a metà. O forse per nulla.

Ma vediamo cosa è successo. Dopo settimane di attesa, ieri sera il CdA di TIM ha diramato il comunicato che sgonfiava ogni roboante aspettativa, al punto da chiudere la giornata in Borsa con il titolo TIM a -2,85%.

Cosa ha deciso realmente in CdA di TIM?

Il Consiglio  all’unanimità ha dato mandato all’Amministratore Delegato “…di avviare, in esclusiva, una negoziazione migliorativa con KKR, finalizzata a ottenere la presentazione – nel più breve tempo possibile compatibilmente con la complessità dell’operazione e comunque entro il 30 settembre p.v. – di un’offerta conclusiva e vincolante, secondo i migliori termini e condizioni, nonché di convenire il perimetro, le modalità e i tempi per l’esecuzione dell’attività di due diligence confirmatoria richiamata nella stessa offerta di KKR…”.

Quindi niente di vincolante. E, cosa più rilevante, nessun punto di non ritorno, quindi una decisione blanda. Sino al 30 settembre una negoziazione in esclusiva (che, ancora una volta, non vincola nessuno), finalizzata (ma non obbligata) alla presentazione di una offerta “conclusiva e vincolante”.

Naturalmente il comunicato ricorda che “…l’eventuale operazione avente ad oggetto la dismissione di NetCo resta soggetta all’ottenimento – fra l’altro – delle autorizzazioni di legge, incluse quelle afferenti al processo di Golden Power e quelle Antitrust”.

Ancora una volta si fa riferimento alla “eventuale” operazione di dismissione della rete, quindi, ancora una volta, nessun vincolo per nessuno, questa volta dichiarato in modo inequivocabile.

Se ora guardiamo a TIM…

Secondo le intenzioni di TIM, la rete andava venduta senza se e senza ma a KKR. Allora viene da chiedersi: perché non hanno deciso in tal senso, invece di assumere quei toni pilateschi che non accontentano nessuno?

Perché è vero che non accontentano nessuno, ma hanno anche il pregio di non impegnarsi su nulla. Ancora una volta per guadagnare tempo, come sta accadendo da molti mesi.

Tutta la partita della rete unica si è trascinata stancamente e per lungo tempo in attesa che arrivasse un beneplacito dal governo. Ma quel “SI” non è mai arrivato. E non è arrivato neanche ieri. Ora in extremis, con quel comunicato, si aggiungono altri mesi, appunto sino al 30 settembre prossimo, in attesa che quel benedetto “SI” arrivi una volta per tutte. 

KKR è una società americana, molto ben seguita dall’ambasciata della Casa Bianca a Roma. Da canto suo, il premier Giorgia Meloni sta modificando il proprio posizionamento internazionale, con vistose aperture nei confronti dell’amministrazione americana. Tutte ragioni che hanno spinto alcuni a considerare che fosse effettivamente giunto il momento magico dell’assenso governativo.

Se guardiamo al governo…

È vero che il premier Giorgia Meloni ha avviato una marcia di avvicinamento verso la Casa Bianca, ma questa non sembra una ragione sufficiente per dare un “Sì” così impegnativo.

Negli ultimi due anni la presidente di Fratelli d’Italia si è molto esposta sui temi della rete e sul suo futuro assetto nazionale, prendendo una posizione chiara, inequivocabile e che non può essere tradita senza colpo ferire. Dobbiamo allora ricordare che il dossier della Rete Unica è il dossier più importante del governo italiano e che Giorgia Meloni ha fatto una intera campagna elettorale sostenendo un asseto delle telecomunicazioni italiane fondato sul “controllo pubblico” sulla rete. Un tema a favore del quale si è posizionato in modo altrettanto fermo anche il leader della Lega, Matteo Salvini. Difficile immaginare che Giorgia Meloni contraddica sé stessa e lasci il tema in esclusiva a Matteo Salvini, in un contesto che dopo la morte di Silvio Berlusconi lascia intravedere anche uno scontro interno alle forze di governo per la leadership del centrodestra.

Se guardiamo a Vivendi…

Vivendi è oggi il primo azionista di TIM. Arrivata in Telecom Italia nel 2015, ha sbagliato quasi tutto. A un certo punto non riusciva più a dialogare né con l’AgCom, né con il governo italiano, né con la Commissione europea. Ha sbagliato nella scelta degli AD dell’azienda, che si sono via via succeduti e che hanno usato le sue percentuali da primo azionista per muoversi in modo forte, ma quasi sempre in totale autonomia.

Va perciò considerato quanto siano difficili immaginare, oggi, i seguiti della partita. 

Vivendi arrivò in Italia 8 anni fa, dopo aver da poco venduto la propria società di telecomunicazioni in Francia. Un po’ come dire che non era più interessata alle tlc. L’acquisto di una quota importante nell’allora Telecom Italia sembrò subito un veicolo per trattare meglio con Silvio Berlusconi l’acquisto eventuale delle reti Mediaset. Non a caso in quei mesi si parlò anche di un possibile ingresso di Fininvest in Telecom Italia.

Ora Vivendi deve decidere cosa fare. Difficile immaginare che subirà in silenzio l’affronto subito.

Vivendi si ritrova oggi ad essere primo azionista di TIM, senza uno, dico uno, rappresentante nel CdA di TIM. È però nella condizione di poter impugnare le decisioni, reclamare una assemblea e in quella sede far valere le sue ragioni.

Secondo il Financial Times di ieri, Vivendi (interessata a vendere la rete, ma non alle cifre offerte da KKRCDP) sarebbe pronta a passare al contrattacco. E gli analisti più attenti hanno spiegato in dettaglio come il gruppo francese disponga di vari strumenti per inceppare la macchina di una vendita non gradita della rete.

Se guardiamo ai membri del CdA di TIM…

Non si trovano in una posizione comoda. I consiglieri rappresentano sostanzialmente se stessi. Alcuni di essi furono addirittura nominati ai tempi di Elliott. La sua composizione appare del tutto anomala. Il principale azionista, Vivendi (con circa il 24%) non ha alcun rappresentante. Il secondo azionista, Cassa Depositi e Prestiti (CDP) ha poco meno del 10% ed un solo consigliere in CdA. Il che vuol dire che il primo e il secondo azionista di TIM, che rappresentano insieme oltre un terzo delle quote azionarie di TIM, hanno un solo rappresentante in CdA, in rappresentanza peraltro del solo secondo azionista, che è CDP.

Ora, come è noto, i consiglieri di un CdA hanno il compito di difendere gli interessi degli azionisti dell’azienda. Ma dove sono gli azionisti di cui questi consiglieri sarebbero espressione? Semplicemente non ci sono. Rappresentando se stessi, questi consiglieri sono in una situazione del tutto imbarazzante.

Se guardiamo a Cassa Depositi e Prestiti…

Il CdA di TIM nel comunicato di ieri sera recita: “…il proprio apprezzamento al consorzio formato da CDP Equity e Macquarie Infrastructure and Real Assets (Europe) Limited per l’interesse mostrato e la fattiva partecipazione al processo competitivo…”.

Ma CDP esce molto malconcia dall’intera vicenda. Mai entrata in partita, ma sempre attiva e con grande e inconcludente prosopopea. Quasi sempre priva della dovuta consapevolezza della complessità delle dinamiche del mercato di settore e delle reali poste in gioco dell’intera vicenda. Difficile che possa rientrare in partita. Flebile, molto flebile, la possibilità di entrare in quota di minoranza con KKR. Una KKR da sola potrà essere eventualmente trattata dal governo con delle modalità. In caso di presenza di CDP nella cordata, il governo dovrebbe alterare completamente il proprio approccio e CDP sarebbe utilizzata come una foglia di fico, per dare una parvenza di interesse pubblico all’intera vicenda. Quindi in assenza di una chiara approvazione del progetto da parte di Giorgia MeloniCDP è destinata a rimanere all’angolo, dopo aver perso inutilmente tutto questo tempo e non pochi quattrini (pubblici).

Se guardiamo a Open Fiber…

È la grande sconfitta di questa operazione, che solo apparentemente sembra non coinvolgerla. Open Fiberè sempre stata vista da CDP come il cavallo di Troia attraverso cui assumerne gradualmente un ruolo guida del mercato italiano delle tlc. Nulla di tutto ciò. Oggi CDP si ritrova completamente disarcionata nella vicenda della rete di TIM, mentre Open Fiber si ritrova a sua volta stretta in una situazione gestionale drammatica, con vistosi ritardi sulle gare pubbliche che ha avute assegnate, sia nelle Aree Bianche che nelle Aree grigie e nere, con una situazione debitoria molto rilevante e con imperdonabili errori di valutazione del proprio top management. Si tratta di una miscela di per sé esplosiva, a cui va anche aggiunto l’atteggiamento particolarmente duro di Macquarie, socio di minoranza di Open Fiber (al 40%), che si è dichiarato non disponibile a lasciar correre e che ora intende vederci chiaro in ogni aspetto di gestione dell’azienda.

E allora, cosa succederà?

Nulla. Non succederà nulla. Nel senso che i guasti in corso continueranno a svilupparsi senza soluzione di continuità. Si ha la sensazione che nessuno voglia affrontare i nodi del sistema. Si avverte un grande deficit di decisioni. Nel frattempo tutti i fenomeni negativi denunciati dagli operatori di telecomunicazioni continuano a crescere. E così abbiamo decisori che non decidono, autorità regolatoria latitante, operatori di tlc che non sembrano avere una visione di sistema e continuano a lavorare con il modello trentennale di business della vendita dell’accesso a internet, mentre i consumatori risultano non pervenuti, infine i sindacati, potrebbero essere gli unici a farsi sentire in piazza. E non a caso. Perché tutto ciò di cui abbiamo parlato genererà l’espulsione di molti lavoratori, anche altamente qualificati.

Intanto si prevede a luglio un innalzamento dei tassi bancari, che peseranno e non poco sui fardelli debitori delle aziende del settore, già ampiamente indebitate.

Staremo a vedere.

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